Memoria storica o scomodo passato?

Le proteste, esplose al grido Black Lives Matter, slogan che non dovrebbe neppure esistere per la sua incontrovertibile ovvietà, oltre a scatenare la reazione popolare quasi ovunque negli Stati Uniti e in Europa, hanno portato con sé un fenomeno che fin dall’antichità era riservato in genere contro ciò che evocava il potere ostile. Mutilare o distruggere una statua, infatti, come gesto di ribellione e disobbedienza civile, oggi si è caricato di una nuova sfumatura ed è stato applicato a monumenti che celebrano personaggi legati ad un passato coloniale e razzista, che, in questo modo, si pensa possa essere se non cancellato, almeno purgato.

Un gesto che finora aveva accompagnato tanto l’atto finale e violento di molti regimi; quanto la presunta iconoclastia, spesso mossa propagandistica e non certo di carattere teologico.

L’episodio dell’abbattimento della statua di Edward Colston a Bristol, portato a termine violentemente dalla folla al culmine di una protesta anti razzista, ha scatenato un incredibile numero di commenti e può essere letto in molti modi differenti.

Innanzitutto, perché quella statua campeggiava nel centro della città inglese? La risposta è data dalla storia. Edward Colston (1636 – 1721) fu, infatti, ai suoi tempi, un filantropo e un benefattore, tanto che ancora oggi la Dolphin Societies, una delle più antiche società di mutuo soccorso a Bristol, si occupa del sostegno e soccorso di anziani e disabili… Peccato che il mercante avesse il vizietto, del tutto legale all’epoca, di trafficare schiavi dall’Africa. Quando la statua fu collocata, come monumento con funzione evocativa, riconosceva al personaggio un’importanza, in questo caso sociale, il cui ricordo a distanza di secoli è scemato, dimenticato, o è divenuto addirittura offensivo. È il corso della storia. E come la statua di Colston, frutto di un’epoca, ci sono centinaia di statue che commemorano personaggi che col tempo sono divenuti scomodi o impresentabili. Il dibattito verte allora su cosa pensare di tutto ciò. Se sia lecito o meno dare un colpo di spugna a un passato vergognoso, cancellando gli errori e gli orrori della storia o piuttosto la strada giusta sia la contestualizzazione che aiuti a comprendere, non a scusare, questa storia. Il dibattito naturalmente è rovente.

C’è chi come l’architetto e fotografo Antonio Ottomanelli afferma che l’atto di distruzione della statua in questione è da difendere, argomentando che “La città consiste di un sistema di significati fissati su di un territorio e la memoria è quella forma di linguaggio che usa questi significati. L’azione ed il movimento usano il linguaggio della memoria. Per questo è indispensabile tutelare il diritto all’azione libera, l’imprevedibilità del movimento, per difendere i meccanismi e i contenuti della memoria. La memoria insieme al movimento sono le sostanze che rendono possibile ogni forma di relazione permettendo la conseguente formazione di ideologie, mentre l’imprevedibilità genera lo spazio pubblico. L’ideologia incontra lo spazio pubblico per creare nuove comunità. Questo incontro può anche avvenire in maniera conflittuale e violenta, fissando significati drammatici sul territorio e tragedie nella memoria collettiva“. (Art Tribune) Dunque la rimozione della statua di Colston, è entrata ora a far parte della storia di Bristol e come tale si potrebbe accettare la proposta provocatoria di Banksy:

“We drag him out the water, put him back on the plinth, tie cable round his neck and commission some life size bronze statues of protestors in the act of pulling him down. Everyone happy. A famous day commemorated.”

Oppure c’è chi come Pedro Azara, curatore del padiglione della Catalogna alla biennale 2019, Catalonia in Venice—To Lose Your Head (Idols), incentrato proprio su questo tema, afferma “queste azioni indicano il potere delle immagini e la loro capacità di metterci di fronte ai fantasmi della storia. Generalmente viene sfigurato il volto delle statue, specialmente gli occhi, in modo da negare loro la forza dello sguardo, altre volte vengono macchiate con colore o scritte, altre volte mutilate”. Tutto quello che non si accetta si elimina: un’attitudine repressiva e ignorante. Però la storia rimane. Che ci piacciano o no, i fatti e gli eventi sono successi, che suscitino vergogna, indignazione o simpatia. Ed è sempre una storia di vincitori e vinti –anche se a volte non si sa bene chi è chi, per questo la storia deve essere raccontata, spiegata, senza doverla giustificare, fornendo tutte le “armi” interpretative necessarie per conoscere e comprendere quello che è successo. L’oblio forzato che si pratica oggi è un errore tragico – con conseguenze imprevedibili. La distruzione di testimonianze moleste impedisce qualsiasi valutazione critica. Negando la conoscenza ci muoviamo come se fossimo ciechi – un procedimento abituale nelle dittature, dove si tergiversa la storia, con una narrazione che difficilmente scappa al controllo e alla manipolazione. Per questo, qualsiasi elemento, documento, testo o immagine che può aiutare a “mettere in prospettiva” la storia, per vederla meglio, con tutte le sue contraddizioni, deve essere difeso e promosso. Una statua soppressa o distrutta è un buco nero nella trama della storia”. (Art Tribune)

Non esiste una risposta univoca, ognuno deve trovarne una che soddisfi la sensibilità personale. Nel nostro piccolo abbiamo chiesto il parere di una giovane gallerista e di una storica dell’arte.

Fiammetta Poggi, della Galleria Accaventiquattro di Prato, ci dice “Onestamente ho dei pensieri contrastanti… Se da una parte è giusto commemorare la memoria storica, dall’altra é anche vero che alcune di queste commemorazioni sono state fatte su personaggi che hanno avuto un passato discutibile (vedi Montanelli, anche se sappiamo bene tutti che spesso il genio é accompagnato da un passato turbolento).
La mia domanda é a monte: perché si sono fatte statue su certi personaggi? E ancora… E così importante continuare a fare statue su personaggi illustri? Non sarebbe meglio commemorarli in altro modo?
L’unica nota positiva in tutto ciò, é la bellezza rivoluzionaria delle persone, ancora disposte a combattere per degli ideali”

Stefania Gori, storica dell’arte pratese, da parte sua commenta: “Mi è stato chiesto cosa pensassi delle statue abbattute. Il mio ricordo è andato subito alla statua di Stalin che fu abbattuta nel 2010 in Georgia e poi a quella di Saddam Hussein nel 2003, infine a quando i talebani distrussero le celebri statue di Budda a Bamyan, in Afghanistan (2001) . Si cancellano le tracce del passato con furia e per rabbia, per rancore, ma il passato ce lo portiamo addosso.  Non si può cancellare la storia, meglio saperla interpretare; per voltare pagina davvero l’unico modo è leggerla con gli occhi di oggi. Cosa mi auguro? Più incarichi pubblici per gli artisti in modo da lasciare tracce contemporanee nelle  piazze , sui  muri dei nostri edifici. Gli artisti da sempre  sanno graffiare e demolire più delle pietre: a loro lascerei la parola“.  

Il passato non si cancella, ma si impara a riconoscerne le ombre, soprattutto quelle che ha gettato sul presente. L’unica via per non prendere una china pericolosa e arrivare a fare patti con la storia, anche quella più buia, cercare di contestualizzare criticamente quello che essa ci ha lasciato.

Baby-Lon.616

Baby-Lon.616 è un libro, o meglio, vorrebbe esserlo a breve… Presentato sulla piattaforma di crowdfunding della casa editrice Bookabook, se sarà in grado di raccogliere una nutrita comunità di lettori, verrà pubblicato. Chi volesse aiutarlo può visitare https://bookabook.it/libri/babylon-616/.

Gli ingredienti per essere un’avvincente lettura ci sono tutti: dall’autore misterioso al tema della narrazione, che richiama i tempi difficili che stiamo vivendo.

Ma andiamo per ordine. L’autore, Andrea Sadà, come recita la biografia “è un personaggio sospeso fra realtà e fantasia, come i suoi scritti”. Ma la cosa che colpisce è “ha pianto quando è morto D.F. Wallace, ma aspira a scrivere come Margaret Atwood o Stephen King. Bazzica esposizioni e fiere d’arte contemporanea, viaggia per lavoro e per piacere, osservando con attenzione in ogni luogo la routine degli altri”. Personaggio enigmatico, di cui non si intuisce praticamente nulla, neppure se è maschio o femmina. Il libro potrebbe svelare qualche particolare, forse.

Si tratta di un thriller metafisico e l’accostamento suggerito agli scritti di Jeff Vander Meer, autore della Trilogia dell’Area X, fa ben sperare gli amanti del genere.

Sul sito della casa editrice c’è un’anteprima succulenta e una sinossi promettente, di cui Italianintransito ha la versione allungata, che pubblichiamo.

“Nel frastuono di un mondo impazzito, in cui nulla è ciò che sembra e nel quale si muovono bizzarri personaggi in grado di cambiare le sorti dell’umanità, chi sarà consapevole del potere della “parola”? In un futuro “leggermente fuori fuoco”, a Eli, giovane e preparata esperta d’arte, lanciata verso un avvenire di successi, è affidato un compito arduo. Dovrà scoprire cos’è e come si diffonde la terribile malattia comparsa improvvisamente, battezzata Baby-Lon.616 a causa del confuso e continuo balbettio che provoca nei malati. Ma dovrà anche comprendere come disinnescare il morbo e chi lo ha scatenato. La “parola” urlata, sussurrata, suggerita, infatti, può portare alla morte o essere l’unica cura. All’incredula Eli è legata la soluzione dell’enigma. La sua ricerca ne svelerà passo dopo passo l’inquietante schema. La sua indagine la porterà da Ginevra a Venezia e infine su un’isola misteriosa del Mediterraneo, in cui incontrerà e affronterà i suoi demoni. Inconsapevole protagonista di un gioco delle parti millenario e spinta da una forza misteriosa, Eli, seppure riluttante, dovrà abbandonare la vita di sempre per andare incontro al proprio destino. Un corollario di personaggi minori affiancherà la protagonista: spettri del passato e presenze inquietanti. Su tutto, l’eterna lotta fra il bene e il male, fra distruzione e rigenerazione come motore propulsivo dell’universo.”

Si prospetta dunque un’interessante lettura, possiamo solo sperare di poterla presto avere integralmente!

8 minuti e 46 secondi

8 minuti e 46 secondi è il tempo che George Floyd, afroamericano, arrestato a Powerderhorn, Minneapolis, il 25 maggio 2020, ha impiegato a morire. Mentre stava pagando un pacchetto di sigarette con una banconota da 20 dollari falsa, Floyd è stato fermato da una pattuglia della polizia, e gli agenti, con il massimo disprezzo della sua vita, hanno considerato adeguato al crimine contestato atterrare l’uomo e inchiodarlo al suolo con un ginocchio premuto sul collo. Floyd è morto mentre inutilmente sussurrava, “non riesco a respirare”, “mamma”, “non uccidermi”.

È “solo” l’omicidio di un altro nero disarmato nell’America “great again” di Donald Trump, dove secondo le statistiche le possibilità che un nero disarmato venga ucciso con violenza dalla polizia sono di molto superiori a quanto possa accadere a un bianco.

I “can’t breathe”, non riesco a respirare è diventato in breve il nuovo slogan usato da coloro che si sono riversati nelle piazze americane per manifestare contro il razzismo e la brutalità della polizia, e lo stesso slogan è stato stampato sulle mascherine anticoronavirus indossate da molti.

Ma la morte di Floyd è stata solo la scintilla che ha infiammato le piazze americane (e non solo), l’esplosione di un problema che non è recente, anzi, che vive nella contraddittorietà della società americana (e non solo), da sempre. Le lacerazioni razziali nel paese della cuccagna, come sono stati considerati per secoli gli USA, non sono mai state ricucite. Ovunque, nella nostra società, governi miopi, incapaci di pensare fuori dagli schemi, invece di risolvere il problema della color line, un altro modo “gentile” per denominare la discriminazione razziale, l’hanno esasperata scavando un vero e proprio fossato basato su stereotipi negativi, basato su una politica del “prima noi”, su un bieco populismo. Una discriminazione razziale strisciante che impregna tutti i livelli della società e tutte le istituzioni, irrisolta perché tocca una parte della popolazione fatta di invisibili sottopagati e sfruttati, dunque sacrificabili. Una discriminazione che è divenuta palese con l’esplodere della pandemia che ha mietuto la maggior parte delle vittime tra le minoranze etniche, più povere, disagiate e con minor accesso alla sanità. Quelle minoranze dei “ghetti” di tutto il mondo considerati un “fardello” della società .

Non si tratta di riscatto, ma di rispetto. Rispetto della vita tout court, rispetto delle persone in quanto tali, mi spingo a dire rispetto dell’anima di ciascuno di noi, racchiusa in un involucro che appunto è solo un involucro di non importa di quale colore.

A livello personale, ognuno con la propria piccola vita, cercando di tenere fuori la testa dall’acqua sembra difficile poter fare qualcosa. Ma questa è una scusa, sono i piccoli gesti che scavano solchi profondi. Intanto cominciamo a parlarne. Incominciamo una vera rivoluzione che parte dal linguaggio. Una rivoluzione che non ci faccia guardare l’altro con sospetto o peggio con disprezzo. Come scrive Tahar Ben Jelloun nel suo Il razzismo spiegato a mia figlia

Bisogna cominciare con il dare l’esempio e fare attenzione alle parole che si usano. Le parole sono pericolose. Certe vengono usate per ferire e umiliare, per alimentare la diffidenza e persino l’odio. Di altre viene distorto profondamente il significato per sostenere intenzioni di gerarchia e di discriminazione

La parola sostenuta da un pensiero forte ci aiuterà a sconfiggere le storture di questa società impazzita.

Immaginare il “dopo”

Tempi eccezionali questi. O meglio, poiché “eccezionale” ha una connotazione di fondo positiva, spaventosi. L’incertezza sul futuro per noi occidentali, che la storia degli ultimi 70 anni ha risparmiato dai grandi stravolgimenti epocali, è inconcepibile e incomprensibile. Su tutto, le restrizioni sugli spostamenti e la conseguente impossibilità di condurre una vita “normale”, fatta di relazioni e incontri, sono la cosa che più di ogni altra viviamo come un oltraggio insostenibile alla nostra libertà individuale. Ma, come ha scritto Paolo Giordano, il nostro errore ripetuto e reiterato è stato “rifiutare l’impensabile, costringerlo a forza dentro categorie abituali e meno spaventose” (Corsera, 21.03.20) per tale inaccettabile leggerezza, ora ci troviamo a questo punto. E l’impressione che il mondo come lo abbiamo conosciuto fino qui uscirà diverso da questa prova, non ci abbandona, anzi ci spaventa. Per noi, generazioni del boom economico del dopo guerra, la vita è stata lieve, tanto che sentiamo di non avere l’elasticità necessaria per affrontare un futuro che ci porterà inevitabilmente fuori dalle zone conosciute.

La grande paura pare scemare con molta lentezza, ma lo strascico di ciò che abbiamo vissuto, come tutti dicono, sarà lungo e doloroso. Come al solito ci si divide in pessimisti e ottimisti ad oltranza. I primi convinti che mai più nulla sarà come “prima”, mentre i secondi già pronti per un nuovo aperitivo.

La storia ci ha insegnato che dopo ogni grande cataclisma, dopo ogni grande stravolgimento politico, dopo ogni guerra, la ripresa è stata esplosiva. Ma l’obiezione potrebbe essere che la storia ci parla di un mondo diverso, un mondo giovane, in cui la globalizzazione non esisteva, la tecnologia avanzata si chiamava fantascienza, quando andava bene, e stregoneria per i più dubbiosi, privo di tutto ciò che ha caratterizzato il “secolo breve”. Un tempo c’era spazio, ampi margini di manovra, con un conseguente risveglio delle arti e delle scienze, e con un’economia spesso di sussistenza che si ritrovava a respirare dopo le grandi paure dei secoli bui (?). Ma oggi? Fare supposizioni è impossibile, le variabili sono talmente numerose che qualsiasi previsione sarebbe in parte, se non del tutto, errata.

E dunque che fare? La cosa chiara è che tutti saremo chiamati a fare il nostro dovere, ricordando che, poiché ci si presenta una seconda possibilità, sarebbe criminale ignorare le storture del “prima”, ricadendo negli stessi errori. La necessità primaria sarà di vivere questa nuova stagione, che si apre e che fa paura, come un nuovo punto di partenza, cosa che darà l’opportunità di cambiare i vecchi cliché. Sarà necessario non dimenticare la grande paura del 2020, correggendo, ognuno per quanto è di sua competenza e grazie alle capacità, quello che era sbagliato o inaccettabile. Ora, infatti, che sarà d’obbligo dare una sterzata alle proprie vite, la speranza è quella di non ricadere nei vecchi peccati. Finalmente sarà data la possibilità di smetterla di vivere come se ognuno fosse un’isola immortale, nella sicurezza che tutto è concesso. Per necessità dovremo abbandonare la nostra sicumera. Il pianeta ci ha chiaramente dato una bella scrollata, che purtroppo si è concentrata sui più deboli e fragili. Stavolta. Facciamo in modo che queste perdite di vite umane, di storie, di saggezza, non siano vane. Non volevamo fermarci un momento a pensare, immersi in una vita che correva troppo veloce? Ci ha pensato la natura a metterci il bastone fra le ruote. E questo ci dovrebbe far riflettere attentamente. Il futuro dovrà ricominciare con il cambiamento, non solo di abitudini e comportamenti, ma molto più profondo di pensiero e atteggiamenti.

L’ultima riflessione va al mondo dell’arte. Se è vero che molte cose cambieranno, anche gli artisti avranno una uova narrazione dalla quale attingere… chissà se finalmente finiranno le noiose citazioni, le affabulazioni inconcludenti, le cannibalizzazioni della creatività… staremo a vedere.

Saremo tutti all’altezza del nuovo mondo?

I libri di Anselm Kiefer

Per chi pensa che il rapporto fra l’arte di Anselm Kiefer e la letteratura sia solamente una questione di supporto cartaceo, consiglio una visita alla mostra Anselm Kiefer Livres et Xylographies, alla Fondation Jan Michalski pour l’écriture et la littérature di Montricher, nella Svizzera Romanda.

Ma prima di addentrarsi nel mondo dell’arte di Kiefer è necessario parlare brevemente del luogo in cui la mostra trova spazio. La Fondazione Jan Michalski infatti è un assoluto gioiello nel suo genere. Creata da Vera Michalski-Hoffmann in memoria del marito, per celebrare il loro profondo amore per la letteratura, e realizzata dagli architetti Mangeat & Wahlensi, si pone il compito di favorire la creazione letteraria e promuovere la lettura attraverso azioni culturali e avvenimenti ad hoc, mettendo a disposizione una biblioteca multilingue di oltre 65.000 volumi, un premio di letteratura annuale e la possibilità, concessa agli scrittori, di risiedere presso la fondazione per trovare ispirazione e sostegno.

Tutto in questo luogo, dalla posizione ai piedi del Jura Svizzero – con una vista mozzafiato che spazia sul Lemano fino alle alpi – all’architettura – che prevede moduli giustapposti per ogni attività che vi si svolge – al silenzio – rotto solo dal vento che soffia fra la struttura e che produce una sorta di rumore di sottofondo che invita alla riflessione – porta alla concentrazione e libera la fantasia.

Ritornando alla mostra allestita nelle sale della Fondazione, con la collaborazione dell’Astrup Fearnley Museet di Oslo, il primo impulso è quello di chiedersi cosa lega Anselm Kiefer alla letteratura. Non tutti infatti sono a conoscenza del fatto che l’artista tedesco, agli inizi della sua carriera, esitò a lungo fra la pratica della scrittura e quella della pittura. Se la seconda prevalse, tuttavia la prima ha occupato e occupa un posto preponderante nella sua storia creativa. È noto come l’artista abbia sempre tenuto un diario al quale ha consegnato scritti che lo hanno aiutato nella riflessione intima dei temi che poi ha elaborato in pittura e scultura. Ed è altrettanto noto che la poesia è sempre stata una delle fonti primordiali di ispirazione per Kiefer. In una conferenza del 2007 al Louvre l’artista affermava:

“I poemi costituiscono quasi l’unico reale per me. Essi sono come fari nel vasto mare, io navigo dall’uno all’altro, senza di loro non ci sarebbe nulla”.

Attraverso l’esposizione saltano agli occhi i legami che Kiefer da sempre intrattiene con il mito, i racconti e più recentemente con i testi sumeri e biblici, la Cabbala, la filosofia, l’alchimia, e ultima nella lista ma prima nella mente dell’artista la storia. Una storia, spezzata dalle atrocità della Seconda Guerra Mondiale, che è grande protagonista della produzione di Kiefer.

Da tedesco figlio di un’epoca in cui il suo paese, da sempre, ricco di pensatori, poeti, musicisti e letterati era stato annientato, Kiefer, come tutti quelli della sua generazione, ha dovuto crescere in fretta facendo i conti con gli sconvolgimenti e i sensi di colpa arrecati dal conflitto nell’intero immaginario tedesco. Per tale ragione l’artista da sempre si abbandona alla riflessione sul “materiale storico” e la sua intenzione non è mai stata quella di dimenticare, cancellare o “normalizzare e relativizzare” la storia tedesca, tendenza che si è mostrata vincente per decenni nella letteratura e nell’arte della Germania post bellica, ma di sondare la storia per restituire a un mondo votato all’oblio la possibilità di ricordare. E ciò agli inizi del suo percorso artistico gli valse l’incomprensione e la critica di molti, tacciato come neo nazista e nostalgico.

La creazione di libri disegnati, scritti, dipinti, illustrati, che raccolgono xylografie e collage, che prevedono l’utilizzo di sabbia, tessuto addirittura liquido seminale, su supporti preziosi come la tela di lino o grossolani come i comuni album da disegno, danno la misura dell’aspetto più intimo dell’arte di Kiefer. Come oggetti unici non destinati ad essere esposti ma conservati, raccontano perfettamente la storia dei temi e delle riflessioni dell’artista. Le varie tecniche esplorano tutte le possibilità di realizzazione dell’opera d’arte.

Se i libri dei suoi inizi sono un luogo di espressione delle idee essi mano a mano cambiano divenendo un vero e proprio luogo in cui Kiefer esplora le infinite possibilità dell’arte, una sorta di camera di incubazione, in cui tutto è permesso e tutto si svolge al di fuori di un’area prestabilita come può essere quella della tela. Gli permettono, infatti, attraverso la successione delle pagine di espandere il pensiero come altrimenti non si potrebbe fare.

Fino a giungere ai famosi libri in piombo attraverso i quali l’artista ammette la dissociazione fra la letteratura e l’arte:

“… e questi libri sono interessanti nella misura in cui sono impossibili da leggere, sono troppo pesanti, il piombo non lascia passare niente è la dissimulazione totale… I libri di piombo sono dunque il paradosso perfetto. Tu non potrai ne sfogliarli ne leggerli e ignorerai ciò che contengono”

(A. Kiefer, L’alchimie du livre, catalogue d’exposition, Paris, 20 octobre 2015).

I libri esposti nella mostra sono opere che vanno dal 1969 a oggi, rappresentano un viaggio affascinante ed esaustivo nella storia più intima dell’artista tedesco.

Quando i big data raccontano l’arte contemporanea

Partiamo da lontano, cioè da quelli che oggi sono molto in voga e vengono definiti big data, cioè da un insieme di dati così grandi e complessi che lavorarci con l’utilizzo di un software statistico standard è impossibile. I dati, su non importa quale argomento, arrivano da diverse fonti, cosa che rende quasi impossibile associarli, ordinarli e trasformarli. Tuttavia, per giungere ad una loro lettura efficace, è necessario connetterli e trovare relazioni e gerarchie attraverso le quali pervenire a generalizzazioni utili a capire la realtà di un certo fenomeno. Gli algoritmi –  che possiamo definire un po’ semplicisticamente un “metodo sistematico”, un “procedimento” che attraverso un numero di passaggi determinato giunge alla soluzione di un  problema – sono il motore dell’interpretazione dei big data.  

Gli algoritmi si possono applicare a qualsiasi tipo di dati, anche a quelli che riguardano attività umane in cui giocano un ruolo particolarmente importante anche altri fattori difficilmente quantificabili. E l’interpretazione dei risultati conduce a sorprendenti rivelazioni. Uno dei campi più sfuggenti e difficili da quantificare perché basato sulla creatività e il talento, concetti impossibili da misurare, è il mondo dell’arte. Su quale è stato applicato un algoritmo per calcolare la reputazione e il successo degli artisti! Ne è venuto fuori un articolo pubblicato sulla rivista Science di novembre intitolato Quantifying reputation and success in art.

Basandosi su numeri quasi impossibili da gestire, ovvero 497.796 mostre in 16.002 gallerie; 289.677 mostre in 7568 musei; e 127.208 aste in 1239 case d’asta, in 143 paesi e 36 anni (dal 1980 al 2016), e setacciando questa montagna in cerca regolarità illuminanti, attraverso un processo detto markoviano, un team di ricercatori, fra i quali un’italiana – la dottoressa Roberta Sinatra – ha ricostruito la carriera artistica di 496.354 artisti. Il risultato della ricerca ha stabilito senza ombra di dubbio che più della creatività e del talento, sono altri i fattori che determinano il successo di un artista: innanzitutto debuttare in una galleria affermata e accedere precocemente a istituzioni prestigiose.  Un dato interessante è scoprire che le quotazioni di un artista passano senza dubbio attraverso il network di curatori e direttori che lo promuovono e più prestigiosi sono più l’artista avrà successo. Il 39% degli artisti che per le prime 5 mostre della loro carriera hanno esposto in luoghi con un’alta reputazione a 10 anni dall’ultima mostra, hanno continuato ad esporre in questi stessi luoghi. Di coloro invece che hanno iniziato la loro carriera in istituzioni con basso profilo solo il 14% ha continuato la propria carriera artistica.

Questa è un’interpretazioni dei dati, i quali probabilmente se fossero interrogati in altro modo darebbero risposte differenti. È inoltre interessante leggere la chiusura dell’articolo apparso su Science: “La nostra analisi si è concentrata sull’arte rilevata in gallerie, musei, o case d’asta, quindi l’arte-non-basata-su-oggetti, come le performance, è stata sotto rappresentata. Ci siamo anche concentrati sulla misurazione del  successo legato all’accesso istituzionale, ignorando altre dimensioni attraverso cui l’arte e gli artisti arricchiscono la nostra società. Eppure, anche con questa limitazione, i nostri risultati evidenziano la stratificazione del mondo dell’arte, che limita l’accesso degli artisti alle istituzioni che sarebbero vantaggiose per la loro carriera. Quantificare queste barriere e il meccanismo di accesso potrebbero aiutare stabilire politiche per dare le stesse possibilità a tutti. Ad esempio, il mondo dell’arte potrebbe trarre beneficio dall’implementazione di  sistemi a lotteria o a selezione cieca che offrano accesso a luoghi di prestigio ad artisti poco rappresentati, migliorando l’inclusione di opere e artisti trascurati”.

Secondo il team di studiosi, dunque, l’idea un po’ romantica che spesso si ha dell’artista, la cui opera viene apprezzata solo per il suo valore intrinseco, cozza contro la dura realtà dei dati, e lo zampino di figure terze e anche di una buona dose di fortuna sono fondamentali per il successo nell’arte. 

Virtus et probitas, fides et constantia

Ho chiesto a bruciapelo a care amiche quale genere di libro avrebbero voluto leggere. Ho ricevuto tante risposte e tutte interessanti, che rispecchiavano non solo il gusto soggettivo, ma anche la personalità di coloro che mi inviavano i propri desiderata.

Una risposta su tutte però mi ha colpito molto e ho deciso di riportarla così come l’ho ricevuta: “un bel libro sull’amicizia fra donne… un’amicizia vera, di quelle che dura una vita, che anche se non ti vedi per anni sai che ci potrai sempre contare, senza gelosie e disinteressata. Un’amicizia in cui ci si manda anche a quel paese, ma sincera e pura”.

La mia riflessione parte da queste parole che esprimono un bisogno primario non solo di carattere sociale ma soprattutto di carattere umano: l’amicizia.

Zygmunt Bauman diceva: «La condizione fondamentale dell’essere umano è il rapporto con un altro essere umano. È il suo sguardo, quello di un altro essere umano, che definisce e forma noi stessi, così come non possiamo vivere senza mangiare e dormire, non possiamo comprendere quello che siamo senza lo sguardo e la risposta dell’altro». Definizione che calza a pennello sull’amore ma anche sull’amicizia, del resto i due sentimenti sono accomunati non solo dallo stretto legame etimologico.

Ma definire l’amicizia è impresa ardua. Filosofi e pensatori di ogni epoca e luogo si sono, almeno una volta nella loro carriera, cimentati nel tentativo. Mi sento di abbracciare le definizioni classiche di amicizia, in particolare quella di Cicerone e prima di lui di Aristotele. Quest’ultimo nei libri VIII e IX dell’Etica Nicomachea dà la definizione di tre tipi di amicizia: la prima un’amicizia che si basa sul piacere, propria dei giovani; una seconda che si basa sull’utilità, propria delle persone mature; e infine quella che Aristotele considera la vera e unica amicizia cioè un rapporto che si instaura fra persone virtuose alla base della quale nell’amico si riconosce una parte di sé.

Cicerone, che tutti conosciamo come oratore e animale politico, dedica un intero libretto al significato di amicizia: il Laelius de Amicitia è un trattatello in cui il Cicerone filosofo getta le basi per una condivisibile definizione di amicizia.

Innanzitutto lo stesso Cicerone afferma che trovare un amico vero è bello quanto raro, «chi (…) si mostrerà amico serio, coerente e stabile, dobbiamo considerarlo di una stirpe umana rarissima, quasi divina!» (64).  Ma l’amicizia è un bene supremo, nasce dalla virtù, dall’onestà e da «un’intesa perfetta di intenzioni, di aspirazioni e di opinioni» (15) «Nella vera amicizia (…) nulla è finto, nulla è simulato, tutto è vero e spontaneo. (…) l’amicizia deriva dalla natura più che dal bisogno, e da un’inclinazione dell’animo mista a un sentimento di amore». (27) «Indice di vera amicizia è ammonire ed essere ammoniti – e ammonire con sincerità, ma senza durezza, e accettare i rimproveri con pazienza, ma senza rancore» (91) «L’amicizia conferisce più vivo splendore al successo e allevia il peso delle avversità, condividendole e partecipandovi. L’amicizia, dunque, comporta moltissimi e grandissimi vantaggi, ma ne presenta uno nettamente superiore agli altri: alimenta buone speranze che rischiarano il futuro e non permette all’animo di deprimersi e di abbattersi. Chi guarda un vero amico, in realtà, è come se si guardasse in uno specchio. E così gli assenti diventano presenti, i poveri ricchi, i deboli forti e, quel che è più difficile a dirsi, i morti vivi; tanto intensamente ne prolunga l’esistenza il rispetto, la memoria e il rimpianto degli amici». (22-23) «Conviene inoltre scegliere una persona semplice, socievole e di sensibilità affine, cioè che reagisca alle situazioni come noi. Tutto ciò contribuisce alla fedeltà. Non può essere leale un carattere complesso e tortuoso, e neppure chi non reagisce come noi e ha una sensibilità diversa può essere leale e stabile. Bisogna poi aggiungere che l’amico non deve provar gusto nel calunniare o nel prestar fede a calunnie mosse da altri. Tutto ciò contribuisce alla coerenza. Ed ecco avverarsi la premessa del discorso: l’amicizia può esistere solo tra i virtuosi. È proprio la virtù a generare e a preservare l’amicizia e senza virtù l’amicizia è assolutamente impossibile». (65) «Infine, la dolcezza di parola e di modi, è condimento per nulla trascurabile dell’amicizia. Il cattivo umore e la continua serietà comportano sì un tono di sostenutezza, ma l’amicizia deve essere più rilassata, più libera, più dolce, più incline a ogni forma di amabilità e di cortesia» (66).

Dunque già Cicerone parlava di virtù, onestà, fedeltà e coerenza, tutti ingredienti fondamentali dell’amicizia… Alla luce di ciò chi di noi è tanto virtuoso da meritarsi un amico vero?

 

 

16 ottobre 1968

16 ottobre 1968, Città del Messico, premiazione per la finale dei 200 metri. Sul podio tre atleti, due neri e un bianco. Lo scatto è iconico, racconta di un gesto fortemente simbolico, coraggioso, che cambierà in modo tragico l’intera vita dei protagonisti. A capo chino, scalzi e con il pugno guantato alzato due atleti statunitensi, Tommie Smith e John Carlos, primo e terzo classificato, ascoltano in silenzio l’inno americano, a rivendicare la tutela dei diritti dei cittadini afroamericani. Quasi in primo piano un giovane bianco Peter Norman, australiano, un fenomeno sportivo che verrà punito per aver osato tanto, condivide con i primi due il grido di ribellione silenzioso, portando al petto lo stemma del Progetto Olimpico per i Diritti Umani.

Il 1968, come ho già raccontato altrove – 50 anni e non sentirli: nel cuore del ’68 – fu l’anno in cui le contestazioni giovanili giunsero al loro apice non solo in Europa. Negli Stati Uniti il disastro del Vietnam, una guerra infinita che decimò l’intera generazione dei ragazzi nati fra gli anni 40′ e 50′, tutti chiamati alle armi, alimentava il dibattito e sopratutto le violenze non solo fra gli studenti. Alcuni episodi di inusitata brutalità portarono agli scontri con la polizia e il potere costituito all’interno delle Università di tutto il Paese. Ad essi si sovrapposero fatti gravissimi come l’assassinio di M.L. King e quello di Bob Kennedy. Nel resto del pianeta il mondo andava in fiamme: il Maggio francese, la primavera di Praga, il massacro di My Lai e la strage di Piazza delle Tre Culture proprio a Città del Messico, solo per citare gli episodi più famosi.

In questo clima arroventato iniziarono le Olimpiadi di Città del Messico del ’68.

Nel tempo le Olimpiadi non hanno solo rappresentato la festa dello sport, ma spesso si sono trasformate in eccezionale vetrina di propaganda politica e sociale. Dove, infatti, meglio che davanti a milioni di spettatori si può dimostrare la potenza di uno stato o, al contrario, le istanze di rivolta e dissenso? Gruppi politici e individui – non solo i regimi – sono da sempre consapevoli dell’impatto che un grande evento sportivo può suscitare. Che dire del massacro dei palestinesi di Settembre nero a Monaco nel 1972, in cui persero la vita 11 atleti israeliani e che innescò un crescendo di vendette reciproche. Come non ricordare gli anni del boicottaggio delle Olimpiadi, quando a turno i paesi dei due blocchi contrapposti rifiutavano di parteciparvi. O ancora ultimamente le polemiche nate durante le Olimpiadi invernali di Sochi in Russia, bollate come palese dimostrazione dell’imperialismo russo di Putin. E ancora la plateale reazione di Colin Kaepernick, ex quarterback dei 49ers e di alcuni suoi compagno di squadra, che durante le esecuzioni dell’inno nazionale si sono rifiutati di alzarsi in piedi in solidarietà con le rivendicazioni dei movimenti per i diritti civili e in palese contrasto con il presidente Trump.

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Sport e politica sembrano essere dunque quasi inseparabili, ma se i regimi totalitari e nazionalisti hanno usato e usano a tutt’oggi lo sport come veicolo di propaganda e di supremazia, assoggettandolo a logiche di potere, la preferenza va invece a quei gesti di disobbedienza civile attraverso lo sport che sono mirati a dare una scossa alla società, a far fremere di indignazione, affinché diritti basilari dell’uomo siano riconosciuti e preservati, affinché ingiustizie e razzismo vengano svelati e combattuti anche sui campi da gioco.

 

 

Tabula rasa

Secondo la stima delle Nazioni Unite il “35 per cento delle donne nel mondo ha subito una violenza psicologica e/o sessuale da parte del partner o di un’altra persona”.

Si parla naturalmente di una stima che viene calcolata per difetto, a causa della difficoltà di reperire dati più precisi, poiché ovunque nel mondo questo è un reato che le donne tendono a nascondere. Lo choc, la vergogna, i pregiudizi portano molte vittime a non denunciare, a tacere, a tentare di dimenticare senza riuscire a metabolizzare uno dei crimini più odiosi e vili che si possano perpetrare.

Questo numero poi aumenta vertiginosamente se con violenza sessuale denominiamo anche quelle “molestie” che tutte prima o poi abbiamo subito, riassunte in modo meraviglioso nella famosa foto di Ruth Orkin An american girl in Italy, che, sebbene scattata ad arte, rende perfettamente il disagio e l’imbarazzo in cui si viene catapultate dalle “attenzioni particolari” non richieste.

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Molti artisti si sono confrontati con la violenza sessuale sulle donne, percepita oltre che come atto di intollerabile brutalità, come espressione dell’abuso di un potere (fisico, economico, sociale, poco importa) nei confronti di chi si trova in una posizione di subalternità.

Alla White Cube di Bermondsay a Londra l’artista colombiana Doris Salcedo (presente nella galleria dal 28 settembre all’11 novembre 2018) espone la sua personale riflessione sul tema della violenza sessuale.  Nella sua essenzialità l’istallazione esibita ha una potenza evocativa devastante. Nell’ambiente completamente asettico della North Galleries sono disposte cinque nuove sculture dell’artista che fanno parte della serie intitolata Tabula rasa. Si tratta di cinque tavoli in legno di differenti fattezze e misure, i quali, tutti, all’apparenza, potrebbero far parte dell’arredamento di una normale cucina. Tutti potrebbero essere il tavolo sul quale si consumano i pasti ogni giorno. Oggetti quotidiani, dunque, che come ogni oggetto della nostra quotidianità, dà sicurezza, parla di routine consumate nella vita della famiglia. Ma questi tavoli, questi oggetti della quotidianità, hanno subito un brutale trattamento e sono stati completamente distrutti e ricostruiti dall’artista. Ad ognuno di essi con colla, chiodi, vernice e quant’altro la Salcedo ha poi cercato di ridare l’immagine e la consistenza primitiva. Il risultato è che apparentemente i tavoli sembrano in perfetto stato, ma man mano che ci si avvicina si scoprono le imperfezioni della ricostruzione, le parti mancanti, le schegge, la giustapposizione dei frammenti… I tavoli hanno solo la parvenza di completezza e interezza, in realtà dopo la riparazione sono rimasti profondamente deboli, fragili, fissurati, delle vere e proprie “mappe dei danni riportati”. Metafora della perdita di identità e del senso fratturato di sé che si prova dopo aver subito una tale violenza, questi tavoli sono “l’unica risposta possibile di fronte all’assenza irreparabile con la loro incompletezza, mancanza e vuoto” (da un’intervista con l’artista).

La Salcedo per poter affrontare quest’opera, per poter comprendere e trasmettere cosa si scatena nell’animo di una donna violata, ha parlato con centinaia di vittime provenienti soprattutto dal suo paese, la Colombia, in cui lo stupro sistematico per decenni ha accompagnato la lotta delle varie fazioni in guerra. L’artista in un’intervista ha affermato: “Più parliamo con loro, più ascoltiamo, più riconosciamo questa esperienza e l’importanza di essa, meno si verificherà (in futuro)”.

In attesa che ciò accada, finalmente, è fondamentale che non si spengano i riflettori sulla violenza, che la condanna sia unanime e senza appello, che si resti vicino alle vittime, che si dia loro la voce e il coraggio per poter denunciare.

Di strada ce n’è tanta da fare…

Un Manifesto

Pier Paolo Pasolini, citato spesso a sproposito e fuori contesto, affermava

Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni.

Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo è un Paese speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale…

Scritti Corsari 1975

Oggi i pericoli per la democrazia sono raddoppiati. Accanto al vizietto italico della smemoratezza, si inserisce l’avanzata della demagogia più bieca, che l’Economist ha individuato nel magnifico e assolutamente condivisibile articolo che celebra i suoi 175 anni di vita: A Manifest, un documento straordinario che vuole sfidare tutti i populismi proponendo un liberalismo “rinnovato” (The Economist, 15 settembre 2018, anniversary edition, pp. 11-12).

Innanzitutto la definizione che il settimanale dà di liberalismo è la seguente: “impegno universale per la dignità individuale, mercati aperti, governo limitato e una fede nel progresso umano determinato dal dibattito e dalle riforme”.

L’Economist rileva come purtroppo i governi liberali finora hanno preferito preservare lo status quo e dimenticare la loro vocazione ai cambiamenti. Relazionandosi in modo troppo stretto con il potere i “tecnocrati liberali”, che hanno apportato “infinite correzioni con politiche intelligenti, rimangono largamente distaccati dalla gente alla quale dovrebbero essere d’aiuto. Ciò crea due generi di persone chi fa e chi sopporta, i pensatori e coloro ai quali si pensa, chi fa politica e chi la subisce”.

Tale dualismo ha alimentato un senso di ribellione contro quelle che sono state percepite come  “élites liberali”, accusate di essere “insensibili, incapaci o riluttanti a risolvere i problemi della gente comune”. La ribellione, in gran parte del ricco Occidente, ha portato al desiderio di rottura con i sistemi del passato, nutrito dalla speranza nella nascita di una nuova classe politica, che si sta dimostrando ancor più inetta della precedente, ed incapace di apportare un reale cambiamento.

Il concetto di “interesse comune”  è stato frammentato a seconda delle diverse identità nelle quali la gente va riconoscendosi, definite dalla razza, dalla religione o dalla sessualità e viene cavalcato e sfruttato da quei leader che hanno trasformato il dibattito, che sta alla base della democrazia, in espressione di una “rabbia tribale”.

Come uscire dall’impasse? L’Economist suggerisce a questo punto la necessità di rinnovare il pensiero liberale ricominciando a credere nella “dignità individuale”, non solo schierandosi con i più deboli ma mettendo in secondo piano i propri privilegi. “Non storcendo il naso verso il nazionalismo ma rimodellandolo e riempiendolo con la propria impronta di orgoglio civico inclusivo” per ritornare a creare libertà e prosperità.

La ricetta sembra semplicissima, ma implica un ripensamento profondo delle idee che dovranno adattarsi alle nuove sfide sociali ed economiche, abbandonando antichi privilegi ed egoismi. A ciò sono chiamati tutti, in particolare modo i giovani, gli unici capaci di nuova linfa e nuovo pensiero.

Staremo a vedere quanti raccoglieranno la sfida. Intanto che ognuno nel suo piccolo faccia la propria parte, recuperando ciò che di civile e umano continua a vivere dentro di noi.